La notizia della morte di Michele Taruffo mi è giunta dolorosa e del tutto inaspettata: era un po’ che non lo sentivo e ho avvertito subito la sensazione di una perdita grave per me, per il mondo accademico italiano, e non solo. Se si volesse consegnare ad un’immagine il profilo umano e scientifico di questo insigne studioso, la scelta non potrebbe che ricadere su quella di un instancabile viaggiatore: un viaggiatore col corpo e con la mente, che aveva fatto proprio il motto di Stevenson: “Non ci sono terre straniere. Il viaggiatore è il solo straniero”. Ma il suo profilo di viaggiatore non aveva niente a che fare con una irrequietezza senza bandolo: cominciava dalla mente e attingeva ad una insaziabile curiosità intellettuale, che aveva bisogno di continui sconfinamenti per rispondere alle troppe domande di conoscenza che avvertiva. Tutta la sua biografia rispecchia questa necessità, intellettuale prima che fisica, di spostare continuamente lo sguardo su realtà nuove e diverse da quelle che gli erano già note, di estendere le sue conoscenze a nuovi campi e a nuovi oggetti. Era peraltro un insaziabile lettore anche di letteratura e anche questa sua apertura culturale contribuiva a condurlo continuamente “in terra straniera”, in un gioco di rimandi che gli piaceva coltivare.
La sua passione per i viaggi e per lo sconfinamento in terre straniere ha fatto da contrappunto a due dati di estrema stabilità che paradossalmente caratterizzano la sua biografia. Da una parte, una prestigiosissima carriera accademica spesa tutta all’interno dello stesso Ateneo: l’Università di Pavia, in cui peraltro era già stato alunno del Collegio Ghisleri. Una carriera che lo ha condotto, dopo il pensionamento, a essere emerito di quella Università e ad essere nominato socio dell’Accademia dei Lincei, nonché al traguardo di 7 lauree honoris causa. Dall’altra parte, è da rimarcare la sua fedeltà alla disciplina processual-civilistica, la cui cattedra aveva ereditato dal prestigioso insegnamento di Vittorio Denti, ed alla cui ricerca ha dedicato contributi importantissimi, che hanno fatto scuola in tutto il mondo.
Eppure, a guardar bene, la passione per i viaggi e per l’alterità geografica e culturale era penetrata significativamente in entrambe queste dimensioni di stabilità. Così, sul primo fronte, Taruffo, pur permanendo sempre nella stessa sede accademica, ha iniziato presto a frequentare sedi e consessi scientifici internazionali, e a dare conferenze, conquistando via via un ruolo protagonista, con riferimento ai suoi temi di studio. Ha iniziato presto anche a
svolgere il suo insegnamento all’estero, non solo in maniera episodica, ma con lunghe e stabili permanenze in varie università estere, a partire dagli Stati Uniti, dove ha insegnato per molti anni alla Cornell Law School, a Ithaca, e poi all’Hastings College of the Law della University of California, a San Francisco. Gli anni americani lo portarono anche ad un rapporto di stretta e feconda collaborazione con l’American Law Institute, e a un rapporto di intesa scientifica in particolare con Geoffrey C. Hazard, con cui condivise vari lavori scientifici ed il ruolo di co-reporter di un progetto dell’American Law Institute-UNIDROIT per un progetto di codice di norme processuali per le controversie transnazionali, che fu pubblicato nel 2005 con il titolo Principles of Transnational Civil Procedure, da Cambridge University Press.
I suoi trasferimenti esteri si moltiplicarono ulteriormente dopo il pensionamento dall’Università di Pavia, avvenuto nel 2013. Grazie alla crescente autorevolezza dei suoi contributi e del suo pensiero, dopo gli anni americani, fu indotto dai numerosi inviti a spostare il suo insegnamento in altri paesi europei e di tutto il mondo. In particolare, dal 2013, è stato per 4 anni professore presso la Catedra de Cultura Juridica di Girona (Spagna), dove ha collaborato intensamente con il direttore di quella Cattedra, Jordi Ferrer, che è stato anche traduttore in spagnolo del suo volume La prova dei fatti giuridici. Quel volume, pubblicato in Italia da Giuffrè nel 1992, ha contribuito ad estendere ulteriormente la notorietà del suo pensiero specialmente in tema di prove anche in tutta l’America Latina, portandolo a essere visiting professor in varie Università di quel continente, come l’Instituto Brasileiro de Direito Processual di San Paolo, la Pontificia Universidad Católica del Perù, la Pontificia Universidad Católica de Chile, l’Universidad autónoma de México e l’Universidad de Medellin. Infine la sua fama si è estesa anche in Cina, dove ha avuto un rapporto di collaborazione specialmente con ilProcedural Law Research Center della China University of Political Science and Law di Pechino, e dove ha tenuto per vari anni un corso di insegnamento in materia di prove, oltre a collaborare con l’Evidence and Forensic Science Institute di Pechino.
Sul secondo fronte, relativo al suo profilo più strettamente scientifico, mi piace sottolineare come Michele Taruffo, in quanto professore di procedura civile, nonostante quella materia fosse considerata da sempre una delle discipline più “tecniche” nel repertorio delle competenze del giurista, fosse tutt’altro che rinchiuso nel recinto dei giuristi “tecnici”, intenti a coltivare la propria disciplina esclusivamente in quella chiave, spesso strettamente funzionale alla conservazione di un sapere da spendere sul piano professionale. Pur avendo su quel piano imbattibili competenze, che lo avrebbero portato ad affermarsi a livello nazionale ed internazionale come un’autorità specialmente in materia di teoria della prova e di verità processuale (Tralasciando i suoi vari Manuali e Commentari, che stanno nella biblioteca di ogni avvocato civilista, mi limito a ricordare in proposito, oltre al già citato La prova dei fatti giuridici, e al volume La semplice verità.Il giudice e la costruzione dei fatti, pubblicato da Laterza nel 2009, il corposo contributo Verso la decisione giusta, Giappichelli, 2020, che è stato la sua ultima e fruttuosa fatica), egli aveva una idea larga del diritto, che si nutriva di sapere storico, sociologico e antropologico. Egli coltivava insomma un raggio di interessi molto esteso ed era attento tanto alle linee di evoluzione giuridica generale, indagate anche da una prospettiva sociologica e filosofica (Assai indicativo in proposito il volume Il vertice ambiguo. Saggi sulla cassazione civile, Il Mulino 1991) quanto agli effetti concreti delle varie espressioni del diritto nella vita sociale. Mi piace ricordare questo suo particolare “sconfinamento” verso altre discipline, perché esso è statocausa anche del nostro incontro scientifico, nato alla fine degli anni ‘90, quando il mondo si avviava verso la globalizzazione e la sfera giuridica veniva investita da immani cambiamenti. Per circa un decennio ho avuto il privilegio e l’onore di un intenso dialogo su temi connessi alla globalizzazione ed alle nuove prospettive che si aprivano per la ricerca giuridica. Si trattò di un periodo particolarmente intenso e pieno di frutti, che portò anche a qualche mia collaborazione a iniziative editoriali (altro terreno su cui Taruffo era particolarmente attivo), come un volume sui metodi della giustizia civile (curato insieme con M. Bessone e E. Silvestri, Cedam 2000), o la traduzione in italiano di alcuni volumi stranieri particolarmente significativi.
Inevitabilmente, ed a maggior ragione, in quegli anni, gli interessi di Taruffo anche sul terreno della comparazione giuridica erano molto accesi. Ma quell’attenzione era nata molto prima, già negli anni 70, quando la disciplina comparatistica ancora non esisteva nelle università italiane, ed era coltivata solo da pochi studiosi di avanguardia. Quell’interesse lo aveva condotto alla ricerca compendiata nel volume Il processo civile “adversary” nell’esperienza americana, pubblicato da Cedam nel 1979, e ad a vari altri contributi di carattere comparatistico. Più tardi quell’interesse avrebbe avuto vari sbocchi anche sul piano internazionale, ad esempio con il volume American Civil Procedure: An Introduction, scritto in collaborazione con Geoffrey C. Hazard, e pubblicato da Yale Unversity Press nel 1995 (tradotto poi in italiano col titolo La giustizia civile negli Stati Uniti, Il Mulino 1993), fino ad un traguardo di calibro internazionale particolarmente significativo, come la redazione dei Principles of Transnational Civil Procedure, sempre in collaborazione con Hazard, di cui si è già detto. A proposito di quest’ultima impresa, ricordo l’entusiasmo e il sorriso, compiaciuto ma appena accennato, con cui Taruffo parlava del metodo che aveva seguito il suo gruppo di lavoro internazionale in quella ricerca: un metodo basato su numerosi incontri realizzati in paesi di tutto il mondo, per avere scambi con esponenti delle relative comunità di giuristi a cui il progetto veniva via via esposto: incontri finalizzati a raccogliere reazioni e commenti, per costruire nuove norme procedurali a raggio transnazionale che potessero rispondere al meglio a retroterra e tradizioni giuridiche tanto diverse.
Dunque, i suoi viaggi lo portavano a sperimentare anche nuovi metodi e nuove forme di sapere in un momento in cui stavano cambiando le coordinate del diritto nell’intero mondo. Di quegli anni e del clima culturale in cui Taruffo amava muoversi da sempre è particolarmente indicativo il volume Sui confini. Scritti sulla giustizia civile, pubblicato dal Mulino nel 2002, in cui si sommano con straordinaria sapienza conoscenze tecniche, storiche, sociologiche e comparatistiche. Non a caso quel volume porta in esergo un motto (tratto dal diario apocrifo di Gengis Khan) particolarmente indicativo dell’atteggiamento umano e scientifico dell’Autore: “Se vedi un confine attraversalo. Poi voltati: scoprirai che non esisteva”.
Maria Rosaria Ferrarese